I teramani nella Grande Guerra.
Il conflitto raccontato nelle pagine del Corriere Abruzzese
Anno 1915


Prime sensazioni invernali. Per quelli che sono al fronte

           Ha piovuto, nei passati giorni, per molte e molte ore.
           Fino a poche sere fa, dalle finestre aperte penetrava ancora nelle nostre stanze di redazione l'alito profumato delle molli e snervanti notti d'estate: l'odore acuto dei gelsomini sprigionanti dalle candide stellucce palpitanti sui deboli steli; il loro soavissimo incenso nel giardino vicino la tenue fragranza delle ultime rose pallide, dei tuberosi vellutati, delle vainiglie melanconiche.
           La pioggia ci ha portato una prematura sensazione invernale! Con la sua uggia, con la sua tristezza. I vialetti si trasformano in pantani, gli alberi, come avviliti sotto la pioggia, fatti silenziosi, i fiori come tocchi da una maligna bacchetta fatata, muti di profumi nel giardino intristito.
           E va il pensiero all'ecatombe dei gelsomini sulla mota, ai poveri gelsomini dalle alucce profanate dal fango dove finiranno col marcire: alle povere rose agonizzanti sui cespi flagellati dalla pioggia.
           E così se ne vanno, così muoiono tutti i fiori che hanno profumato le dolci notti dell'estate. E un'altra famiglia di fiori melanconici e senza profumi prepara la sua fioritura: la triste famiglia dei crisantemi, i pallidi dominatori dell'autunno.
           E l'autunno ha già iniziato il suo imperio. Imperio di cieli grigi, di giornate di pioggia, di foglie arrossate. Nunzio dell'inverno che s'approssima. Ma non quest'anno l'inverno ritroverà la gioia torno la mite luce della lampada pendente dal soffitto, nelle tepide stanze da pranzo dove la famigliuola si radunava per la lieta conversazione serale, mentre la pioggia picchierellando sui vetri vi portava come una nota d'allegria. Come il querulo e festoso crepitio del cammino.
           Quest'anno, sono tanti i lontani!.. E sono così pochi i ritrovi famigliari dove qualcuno non manchi: sia il padre, il fratello, il fidanzato. E sono così lontani i nostri cari. E sono nelle trincee, sui fianchi dei monti dove regna perenne la neve, assiderati dal freddo, esposti, votati ad ogni sacrifizio. E sono i nostri eroi, sono quelli che compiranno il grande sogno di redenzione così lungamente e intensamente sognato, sono quelli che strapperanno al sempre odiato nemico i nostri fratelli che furono schiavi fin'oggi; che libereranno le terre che sono state sempre nel nostro cuore e nella mente nostra.
           Ecco perché, quest'anno, il picchiettio della pioggia sui vetri non ci porterà la consueta nota di allegria. Perché ogni raffica di vento e di pioggia ci dirà le sofferenze dei nostri cari lassù tra i venti gelidi delle montagne dalle quali vanno spazzando per sempre i nemici d'Italia.
           A mitigare quelle sofferenze, però, un altro esercito mite, silenzioso, operoso, le donne d'Italia pensano oggi senza tregua. Se la lampada famigliare non rischiara quest'anno le gaie adunate degli anni trascorsi, illumina il lavoro assiduo delle nostre donne intente a preparare gli indumenti pei nostri soldati.
           Ovunque l'opera santa non ha posa. Nei palazzi dei ricchi, nelle modeste case borghesi. E lavorano le vecchie nonne, le mamme, le giovani donne, le bimbe. Chi non ha qualcuno laggiù? Un nipote, un figlio, il marito, il fidanzato, un fratello?
           E tutti i giorni sono pacchi d'indumenti che vanno per il tramite dei vari comandi, verso la zona di guerra a portare oltre un tepido benessere alle membra indirizzite il palpito delicato e trepido d'un gentile cuore di donna sul cuore dei nostri saldi e magnifici eroi.
           Pensate, però, che si tratta di milioni d'uomini cui è necessaria la nostra assistenza e che dinanzi alla vastità del bisogno non sarà mai troppo ciò che si fà. Quindi non soste, non allentamenti, non stanchezze. Come dicono i nostri soldati, solo a guerra finita dovranno cedere le loro armi le nostre donne. Finché un solo soldato potrà correre il rischio di tremare dal freddo, nessuna donna d'Italia ha il diritto di riposare.
           Ma non basta, ahimè, la dolorosa profferta delle
           mani dolci, mansuete e pure
           occorrono danari e ne occorrono molti. Chi ne ha deve darne. Più vile di chi disertasse il suo posto di combattimento sul campo di battaglia sarebbe chi potendo sovvenire l'opera del gentile esercito della pietà rifiutasse il suo obolo per l'acquisto della lana. Ma in Italia non sono dei vili nè sui campi dove si combatte e si muore, nè in quelli puri e sereni della carità. Chi non ha ancora offerto nulla offrirà oggi o domani. Ma nessuno manchi all'appello. Essi, i nostri soldati, tutto danno per la grandezza della patria nostra e noi abbiamo il dovere di sorreggerli, di non abbandonarli. Come essi difendono il diritto e la giustizia d'Italia, noi dobbiamo difender loro dagli assalti del nemico, che solo può farli impallidire: il freddo. E solo quando ciascuno di noi avrà fatto il proprio dovere, solo allora noi avremo il diritto di dirci degni dei tanti sacrifizi compiuti, di guardare col cuore aperto verso Trento e Trieste, rivendicato dal sangue vermiglio dei nostri soldati.
           E la pioggia continua incessante, monotona a picchierellare sui vetri, quasi a martellarci nella mente e nel cuore l'uggia di queste premature sensazioni invernali.