17 novembre 1894
In memoria di Panfilo Gammelli
discorso di Camillo Sagaria
(Terza Parte)
Io non vi parlerò del processo, o signori, chè ne l'animo di chi visse in quei tempi, rinnoverei troppo dolorosi ricordi: tutti sanno cosa significassero allora nel governo napoletano i processi di Stato, sì al vivo e con tanta maestria delineati dal più grande figlio (1) de la moderna Inghilterra.
La Corte Speciale di Teramo non fu certo da meno de le altre nel regno, che a magnanimi e prodi innalzarono i patiboli ed aprirono le galere; di essa parlò a lungo il Michitelli, ed io aggiungerò solo che la condanna era già fissa ne l'animo de i giudici, prima che si aprisse il dibattimento, perché così voleva il maresciallo Landi, il feroce ministro e la vendetta borbonica.
Nel vedere sprezzata ogni legge, nel vedere conculcato ogni sentimento di moralità, Panfilo Gammelli non volle cadere vittima silente, ma proruppe impetuoso ne la foga de gli affetti, che agitavano il suo animo generoso. Pronunziò la sua autodifesa piena di erudizione, di argomenti stringenti, di verità innegabili, ma, l'ho già detto, la sua sorte come quella de i suoi compagni era decisa. Parò con audacia; infatti esordì col motto che il Sully soleva rivolgere ad Enrico IV: “O re, tu hai due sovrani, Dio e la legge e la prima legge del re è di osservare tutte le leggi” era questa un'ammonizione palese che da lo sgabello de i rei Panfilo Gammelli rivolgeva a Ferdinando II. Riassunse poi con un rapido cenno la storia de la legislazione italiana su cui aveva disteso la poderosa ala del suo ingegnò, parlò del Tannucci e del Ricciardi, e se non biasimò la magistratura de i suoi tempi esaltò la passata. Al pubblico ministero, che forse gli aveva detto come nulla più di un discorso incendiario pareva provocare a la rivolta, egli rispondeva con la storia dicendo: “...Bruto maggiore col presentare nel foro il cadavere sanguinoso della suicida Lucrezia sospinse i Romani a ribellarsi contro i Tarquini, ed Antonio cui far mostra del corpo di Cesare, in cento parti trafitto, commosse il popolo ad una guerra di sterminio contro i congiurati...”. Giustificò la sua condotta, parlò de i moti d'Italia, di quanto era successo a Teramo, di quanto era stato fatto senza volere né rovesciare il governo, né offendere il monarca; ma le sue parole erano roventi; gli fu imposto di tacere ed egli dové ubbidire, egli, che aveva compreso come inutile fosse il difendersi innanzi a quest'accolta di giudici, avendo già detto: “...Oh! Se non avessi alcun estrinseco dovere a compiere! se la mia opera non fosse necessaria ad alcuni infelici che la mia prigionia danna alla più triste indigenza, affilata al filo della corrente, che mi trasporta, non avrei voluto muover fiato per la difesa, avrei voluto seppellirmi nel carcere per essere di là precipitato nella tomba, ove soltanto avrò posa dalle ingiustizie degli uomini...”
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Finalmente il 29 agosto 1850 la Gran Corte Speciale condannava a 19 anni di ferri Panfilo Gammelli: era questa la terribile sentenza che la sua figura di oratore e di poeta doveva convertire in quella di martire: vera incarnazione de la nobile fermezza spartana, serenamente ascoltò la sua condanna e con animo tranquillo insieme a i compagni di sventura partì per l'orrido bagno di Pescara. Quando giunse a Giulianova, mentre il popolo si affollava riverente intorno a l'eroica schiera circondata da i gendarmi, Panfilo Gammelli, sollevando le braccia e le catene al cielo, esclamò: “O populo Iuliese consumatum est!”
Invero tutto era finito per lui: a i tormenti de la galera di Pescara non poterono resistere la sua anima ardente ed irrequieta, il suo corpo già affranto da gli anni e da i disagi sofferti, e, quando ammalò di febbri carcerarie, volle morire, ricusando prendere qualsiasi rimedio. Come il leone, che non vuol vivere ne la gabbia ed infrange il proprio capo contro le sbarre di ferro, che lo circondano, così Iacopo Ruffini s'era pugnalato nel carcere, offrendosi in olocausto a la patria; Panfilo Gammelli più serenamente si lasciò spegnere da la malattia de i forzati l'8 settembre del 1851.
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Era Panfilo Gammelli alto de la persona, di carnagione rosea, da gli occhi cerulei, da la capigliatura riccia, da i lunghi favoriti biondi; amante de l'antitesi ne la vita e nel pensiero a venti anni cominciò a cospirare, impetuoso (2) e leale per la sua lealtà ebbe nemici fra gli stessi liberali, ed a ciò forse contribuiva la sua vita solitaria: egli infatti uomo d'azione, rifuggiva da le ciarle, da le grida sediziose, da le dimostrazione di piazza.
Tra gli avvocati penali aveva gran nome non solo a Teramo, ma anche fuori; spesso le aule de le Corti Criminali risuonavano de la sua voce eloquente, che sempre pronta a venire in soccorso de gli sventurati, commuoveva gl'indifferenti, rassicurava i deboli, conteneva i potenti: lo avresti detto l'incarnazione di quell'ideale tipo di avvocato penale, a cui il Fyot de la Marche scioglie un inno trinofale.
Di robusta coltura e d'ingegno vigoroso scrisse molto in materia giuridica e letteraria, però la maggior parte de le sue opere andarono disperse o per la sua vita randagia o per l'odio che i governi assoluti han sempre nutrito contro le opere ispirate a libertà; poche ne rimasero, vale a dire una tragedia, qualche frammento di poesie, due orazioni, un'opera di filosofia del diritto incompleta, il principio di un'opera di morale, ma tante bastano perché il critico più minuzioso possa dare del Gammelli letterario lusinghiero giudizio. Né qui è il luogo, né le mie deboli forze consentono che io mi intrattenga a lungo su le opere di Panfilo Gammelli: dirò solo che, quando si legge quella meravigliosa sua tragedia “L'Asilo del Mona”, un lagrimevole episodio de l'invasione romana in Bretagna, si può convenire che l'insigne nostro concittadino, come il Guerrazzi, considerava la letteratura la colonna di fuoco, che doveva condurre gli Ebrei dal servaggio a la libertà.
Signori,
se tale è l'uomo che ho tratteggiato, è da sperare che una pietra porti scritta il nome di lui, perché quel nome significa, ingegno alto e retto, fierezza di carattere, amore a la libertà in tempi di tirannide, sacrificio de la vita al proprio ideale: che sono i termini de la manifestazione e de l'affermazione più alta, più nobile de l'umana natura.
(1) Sui Processi di Stato nel governo napoletano. Due lettere di W.E. Gladstone al Conte di Aberdeen. Napoli 1889.
(2) Del suo carattere impetuoso fanno fede due aneddoti, i quali mostrano come egli a tutte le ingiustizie, fossero dirette contro di lui o contro gli altri, sdegnosamente si ribellava. Ne l'udire una volta la ingiusta condanna, che colpiva il suo difeso, fu preso da tale sdegno che innanzi a la Gran Corte Speciale gettò via la toga e calpestò il codice: certo l'audace atto sarebbe costato al Gammelli severe pene disciplinari, se i giudici non fossero stati trattenuti dal rispetto che incuteva il suo valore. Altra volta, mentre egli arringava, osservò un giudice, che ne l'altezza de la sua funzione si cullava in un placido dormiveglia; allora egli destramente prese a narrare una favola, da la quale traendo diletto il giudice si destò: i fulmini de la sua satirica eloquenza si scatenarono allora contro quel magistrato, che a l'alto compito affidatogli anteponeva una frivola favola.
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