Un grande figlio di Atri
Aurelio Grue
Medaglia d'oro di Adua
(6 aprile 1935)
Tutti i giornali d'Italia hanno ricordato quest'anno, con solennità, la battaglia di Adua, parlandone non come di una dolorosa sconfitta, ma come di una tappa del duro cammino ascensionale della Nazione. Sulle bocche di tutti son tornati i nomi già tanto noti di Arimondi, Da Bormida, Romero, Galliano, Toselli, Baudoin, Prato, D Reosa, Bianchini e Grue.
Per ben comprendere l'eroismo di questi prodi bisogna aver chiare nella mente le condizioni della nascente Italia. Arrivata ultima nelle competizioni colonialiste degli Stati europei, non era in condizioni di fare un attiva ed audace politica mediterranea di accaparramenti e di acquisti, in concorrenza con gli altri; le sue forze non erano sufficientemente sviluppate, ed erano assorbite dalla prima e difficile fase della sua crescita con gravi problemi internazionali ed interni da sorvegliare e risolvere. Il problema coloniale, quindi, non poteva essere compreso dai più, nè considerato come elemento di vita per uno Stato chiamato ad una missione civilizzatrice.
Solo una schiera di eletti, poteva divinare il futuro. A questa apparteneva l'anima forte di Aurelio Grue.
Nato in Atri il 7 maggio 1870, discendente da una famiglia che aveva già illustrata con l'arte la nostra regione, egli racchiudeva nel cuore le forti doti virili che animarono il padre suo, Antonio, patriota insigne, garibaldino nelle guerre dell' indipendenza. Dopo aver studiato nel paese natio, la forza del suo sentire lo chiamò a scegliere la carriera delle armi e così, compiuto il tirocinio nel Collegio Militare di Roma, entrò nel l'Accademia Militare di Torino. Quivi, l'allievo già distintosi per la buona volontà, non si smentisce ma si perfeziona e completa. Conseguita la nomina a tenente, nel 1890 passa a Pesaro nel 14. Reggimento Artiglieria da Campagna, dando prova di quella disciplina che fu sempre dote del suo maschio carattere.
Quando intravide che la fierezza dei suoi anni giovanili si sarebbe isterilita senza un'azione generosa condivise l'entusiasmo dei pochi e dei migliori per la spedizione d'Africa.
Come maturasse in lui il distacco dalla famiglia, che adorava, dall'Abruzzo che tanto amava, dagli affetti che gli sorridevano, solo la madre sua intese: solo essa seppe con quanta dolce serenità lo soggiogasse la grande passione. Partì volontario, il 28 dicembre del '95.
«Vado a combattere in Africa non per brama di cogliere allori, ma per adempiere il sacrosanto dovere che m'impone la nobile mèta cui mi affidai sin dall'infanzia.... Parto contentissimo per andare a condividere la sorte col mio fratello Arnaldo (che era già volontario in Africa): se la fortuna ci manderà superstiti, torneremo a baciare questa terra sacra per noi». Queste furono le parole di commiato agli amici che lo salutavano, parole che commossero chi allora le udì e commuovono maggiormente noi, educati nel clima della Vittoria e della Rivoluzione, perchè pronunziate in tempi ben tristi per l'Italia.
Durante la traversata, mentre si allontana dalla Patria per regioni ignote, egli si avvicina col pensiero alla famiglia e all'Italia. Con fine spirito di osservazione, con precisione e chiarezza di idee e con quella indipendenza di pensiero che fu sempre dote del suo carattere, prende nota giornalmente di ogni sua azione. Dalla lettura del suo diario, chiaramente emerge quanta nobiltà possedesse l'animo suo.
Il 6 gennaio sbarca a Massaua e per un caso fortunato si incontra col fratello Arnaldo: si abbracciarono i fratelli e si lessero l'uno nel cuore dell' altro.
Fu l'ultimo incontro: le circostanze ben presto li divisero, Aurelio fu destinato alla Brigata Da Bormida. Arnaldo in quella di Arimondi, e mai più si rividero.
Iniziata la marcia il 9 di gennaio, il diario si chiude con l'arrivo ad Adigrat il giorno 17 dello stesso mese, in vista dell' infausta conca di Adita. Le vicende dello sfortunato incontro in cui ventimila italiani si trovarono davanti a centomila abissini, sono ben note per rifarne la storia.
Aurelio, che come comandante della colonna munizioni, era lontano dalla linea di combattimento, fu spronato dal sentimento altissimo del proprio dovere là dove più ferveva la mischia nè cedette finché non trovò morte gloriosa.
Riporterò, a testimoniare l'eroico atteggiamento di Aurelio Grue, la lettera inviata dal tenente Vacca Maggiolini, suo collega nella 6. Batteria, al fratello Arnaldo:
«Keren 16 marzo 1896
«.....fu al tramonto, quando tutta l'orda scioana si rovesciava su noi, che Egli spiegava le sue splendide qualità di Ufficiale. A lui si deve l'iniziativa della forte resistenza delle batterie, durante la ritirata; a Lui che fermò la testa della colonna, pregò, impose, ottenne che la 6. e la 7. ponessero in batteria 2 pezzi e trattenessero, un istante, l'irrompere del nemico..... Si fece quello che era possibile; ed Egli, cui non spettava e che avrebbe potuto continuare la ritirata con la colonna munizioni, Egli era esempio a tutti di coraggio e di ardimento .... Coraggio, ragazzi, gridava alla batteria che aveva già visto cadere il capitano e metà dei suoi, coraggio! Se dobbiamo pigliarci una palla, meglio vale pigliarla di fronte che nella schiena.....Certo è che, se Egli è morto, è morto dando a tutti, ufficiali e soldati, indimenticabile esempio di fierezza e coraggio».
In Atri furono rese solenni onoranze al Prode.
Il 7 giugno del '903 e alla presenza delle Autorità Provinciali, delle rappresentanze dell'Esercito e di una moltitudine reverente di cittadini furono scoperte le lapidi nella casa paterna, in cui, sono eternate la motivazione della medaglia d'oro e la riconoscenza dei concittadini:
La motivazione della Medaglia d'Oro è la seguente:
«AURELIO GRUE: Alba Garima - 1. marzo 1896.
«Comandante della colonna munizioni dimostrò calma ed ardire in tutta la giornata. Alla fine precedendo la brigata che si ritirava, scelse di sua iniziativa una posizione adatta per arrestare i pezzi che seguivano, e raccolte le scarse munizioni, ancora rimaste nei cofani, fece mettere in batteria i pochi pezzi che potè avere alla mano. Ivi sparando gli ultimi colpi contribuì efficacemente a trattenere ancora l'irrompere del nemico, finché, mortalmente ferito incuorava ancora i soldati con nobili parole ».
La lapide ha queste parole:
Ad — AURELIO GRUE — Giovane illustre — Per virtù Civili e Militari — Spentosi in Adua — Eroicamente pugnando — La Patria riconoscente — VII Giugno MCMIII.
Atri fascista, non immemore delle glorie dei figli suoi, lo ricorderà ai posteri nella Cappella Votiva insieme ai Caduti per la grande guerra.
L'Italia dell'Anno XIII rivendica la tappa sanguinosa col giuramento di non subire offese al proprio prestigio.
DOMENICO TORINESI
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