Di scuole, ma solo nei borghi d'importanza, c'erano quelle dove s'imparava a leggere, scrivere e a far conti. Il maestro era quasi dappertutto un sacerdote che sovrattutto sapeva far tremare. Sotto di lui si raccoglieva il piccolo numero di ragazzi delle famiglie principali e quelli della gente mezzana che aveva qualche voglia, possibilità o speranza di far di loro alcunché di più che non era stata fatta essa stessa. Ma ad essi doveva bastare d'apprendere a far di propria mano un biglietto od un conto. Ed erano già dei fortunati, perché per le vie brulicava il resto dei fanciulli, che erano il maggior numero, cui la poca cura dei genitori, occupati a guadagnare loro il pane, e il disprezzo dei maestri tenevano lontani dalla scuola, dove per altro non c'era posto che per quegli altri pochi. In quello studio elementare, i figli dei ricchi stavano uno o due anni, poi passavano in una classe che si chiamava grammatichetta, ai rudimenti del latino; da questa salivano alla grammatica fatta di solito da un altro sacerdote più valente, che presto li metteva a tradurre il Da Kempis, per indurre in essi lo spirito che doveva giovar loro a non lasciarsi guastare da altri studi l'anima cristiana. E poi andavano ai collegi nella città vicina, per l'umanità, la rettorica, la filosofia, donde infine agli studi universitari. Gli altri di mezza condizione, duravano tre o quattro anni nella prima scuola; pochissimi per vaghe speranze seguivano i compagni nella grammatichetta, e lì, o si arrestavano delusi, però sempre in tempo d'andare a qualche mestiere, o aiutati tiravano allora avanti se avevano ingegno, e alla fine si volgevano al seminario per farsi preti.
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Da Kempis
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