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      I ricchi dunque si divertivano consumando i redditi delle loro possessioni divisi a mezzo coi lavoratori che essi chiamavano loro contadini, con tono di dominio benevolo; e questi parlando di loro godevano di chiamarli padroni. Ma li avrebbero stimati meno degni di tal titolo, se se li fossero visti fra piedi a immischiarsi delle coltivazioni. I pochissimi che pensavano a migliorarle davano quasi scandalo. Che strana cosa udire un signore parlare d'aratri, di concimi, di sementi! Non c'erano loro contadini che se ne intendevano? I ricchi badassero divertirsi! E i ricchi si divertivano. Da una borgata all'altra s'invitavano in brigate allegre tutto l'anno a festini, a caccie, a sfide nel pallone. I carnevali erano gare a chi durasse più notti in veglie, in cene, in bagordi; poi la quaresima veniva a rimettere in onestà ogni cosa. Passavano i missionari a purificare l'aria, e le anime ritornavano monde ad aspettare gioie nuove.
      E così tutto andava avanti in pace. Il male c'era, si sa, ma ognuno sapeva appena i fatti brutti e delittuosi che avvenivano, per dir così, a portata di voce, non come ora noi che, stando in qualsiasi cantuccio, si viene a sapere quelli di tutto il mondo; e perciò parevano pochi. Ma pace non v'era tra le famiglie elevate della cittadinanza: queste vivevano divise da invidie e da odii profondi per prevalere e dominare; si designavano tra loro con nomignoli di scherno, contendevano apertamente per cose da nulla: il banco in chiesa un po' più in sù verso l'abside era oggetto di vive gare; il non lasciar entrare l'avversario nel Consiglio del Comune, l'impedirgli le vie di divenir sindaco, erano cure astiose; vigilanti a vicenda, tirare ciascuno a far cascare l'altro in disgrazia del Governo era uno studio oscuro, ma voluttuoso.


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Cronache a memoria
di Giuseppe Cesare Abba
pagine 64

   





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