Dicevano che, saputosi che il Ravina doveva passare dalle loro parti, per essere condotto al processo di Torino, essi si erano appostati in una delle giravolte della strada che sale a Montezemolo, e che quando il prigioniero era comparso tra le guardie si erano lanciati per liberarlo. Ma egli tranquillo aveva gridato loro di star buoni, di non far del male a quei poveri diavoli, di andarsene e tenersi segreti, perché l'ambasciatore di Spagna lo avrebbe fatto liberar lui. E questo era poi proprio avvenuto, e quei generosi che per anni avevano tremato d'essere scoperti, venuti tempi d'arie nuove, lasciavano dire o dicevano essi stessi d'essere stati a quel procinto. Di quel Ravina e d'altri molti langaioli profughi si parlava con rispetto e con desiderio, nessuno osava più dirne male apertamente, nemmeno coloro che avevano fatto festa agli austriaci del Ventuno.
Ma altre cose si udivano poi verso il Quaranta. Sebbene il fisco fosse discreto e tasse se ne pagassero poche e leggere, si diceva che Carlo Alberto raccoglieva tesori e che a Torino avevano dovuto puntellare persin le volte di certe stanze dei palazzi reali, perché pericolavano dal tanto denaro che vi si era ammassato. Allora novità lieta fu l'udire che era stata creata una compagnia di soldati vestiti così e così, col cappello piumato, armati di carabine perfette, capaci essi di arrampicarsi fino ai tetti delle case e i loro superiori quasi di volarvi. E ognuno si gloriava che di quei soldati, scelti in tutto l'esercito, molti fossero delle Langhe, chi del tal paese, chi del tal altro, e con orgoglio si nominavano.
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