Non sapevano che cosa potesse avvenire: forse ricominciava qualche diavoleria alla francese come ai tempi della loro giovinezza.
Appresso, un po' oggi un po' domani, la gente venne a sapere che a Torino avevano fatta la rivoluzione, che il Re era stato svegliato un mattino per sentirsi dare la notizia inattesa; che l'aveva ricevuta più con dolore che con collera; e che, sebbene vecchio, si era mostrato pronto a montar a cavallo, per andare egli stesso a mettere nell'ubbidienza la città e l'esercito. Ma, come si diceva, i suoi consiglieri gli avevano giurato che non sarebbe stato possibile, senza spargere sangue di soldati e di cittadini, e che perciò egli s'era risolto a levarsi la corona, perché se la venisse a prendere il suo fratello men vecchio, che allora stava a Modena presso il Duca suo cognato. Modena? Doveva essere la capitale di qualche altro Stato, aveva detto la gente. Allora parlarono quelli che erano stati soldati di Napoleone, e spiegavano, e si volgevano a trinciar l'aria dalla parte dove stava quella città lontana. Essi sapevano di tante altre città d'Italia, di Francia, di Spagna, d'Alemagna e fin di Russia; ne sapevano più del sindaco, dell'arciprete, di tutti; e dicevano pure che il Principe di Carignano non era né figlio né nipote del Re, ma un cugino e cugino dalla larga anche, discendente di un Principe di Savoia trapiantatosi in Francia da moltissimi anni. La genterella ascoltava, e poiché dalle cose nuove qualche po' di bene, almeno nei primi momenti, le era sempre venuto, si rallegrava intanto che il Governo in nome del Principe aveva calato il prezzo del sale.
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