Stonava un poco in quel concerto d'anime un padre Serio spagnuolo, venuto lì come uno della gran milizia calasanziana cui fosse stata mutata sede: ma in verità egli era profugo dalla sua patria, scampato in Madrid da un assalto del popolo al suo convento, e uscito dicevasi da quella città nascosto in una carrata di fieno. Nel Collegio faceva da ministro. Olivastro nel viso, ossuto, segaligno, feriva gli occhi a chi lo guardava nei suoi, e schiaffeggiava da cannoniere. I convittori lo temevano, ma i padri non gli volevano male. In fin dei conti era della patria del loro fondatore, del quale non si erano mai gloriati tanto come in quei giorni, che potevano dire aver egli, due secoli avanti, prescritto che tutti nell'ordine parlassero italiano, e si accogliessero a scuola anche gli ebrei. Egli non aveva aspettato che li liberassero i Re coi loro Statuti.
Quando scoppiò la guerra del 1848, il Collegio fu un faro per tutte le Langhe. Non v'era notizia che non aggiungesse luce là dentro agli spiriti. Né vi cessarono gli ardori neppure quando Pio IX richiamò l'esercito dalla guerra nella valle del Po. Perché Durando, che era di Mondovì, là presso, e ben noto a qualcuno dei Padri, s'era gingillato tanto a passare il gran fiume; perché non aveva fatto presto a dar dentro negli austriaci, a vincerli in qualche grossa battaglia, che il Papa ne avrebbe avuto piacere? Dicevano così i più ingenui; ma il professore di filosofia, quello galluppiano, bisbigliava che forse a udir troppi canti per Carlo Alberto il Papa si era seccato, e che doveva essersi doluto assai d'aver letto il Primato di Vincenzo Gioberti, e di avervi creduto.
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