Poi dopo lievi tripudi per Goito, per Pastrengo, terre lontane che il pensiero fingeva già lì appena oltre i colli, per farne una cosa sola col Piemonte, vennero le notizie amare delle sconfitte e gli sgomenti. Triste fu l'autunno del 1848, triste l'inverno appresso. Sopravvenute le notizie di Roma e della fuga di Pio IX, nel Convento entrò la malinconia. Il professore galuppiano se la prendeva apertamente, ma chetamente, col Primato: il Serio spagnuolo pareva tener in tasca un volume di sue profezie avverate o da avverarsi; il padre Canata divenne pensoso e taciturno. Dové sentire che presto l'anima sua sarebbe stata presa tra due vènti contrari. A chi avrebbe augurato di cuore la vittoria? Tremava di poter perdere per forza, un qualche giorno, la sua sincerità. Tuttavia quando fu saputo che a Novara l'esercito piemontese era stato sconfitto, egli discese per fare scuola. Entrò che pareva andasse all'altare per dirsi da sé la messa da morte; e quando fu sulla cattedra agli alunni rimasti con l'anima sospesa a guardarlo, disse: "Figlioli, i nostri soldati furono vinti, ma Dio non abbandonerà l'Italia". E cadde svenuto.
Due giorni appresso il Collegio fu tutto sossopra. Vi era giunta notizia della rivolta di Genova che non voleva più stare unita al Piemonte, perché questo era stato vinto a Novara, o che se unita voleva mettersi alla testa dello Stato lei, per continuare la guerra. Voci confuse, oscure, che misero in subbuglio i convittori liguri e monferrini, gli uni contro gli altri.
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