Soltanto quando passarono i bersaglieri che tornavano da Genova vinta, nei borghi di qua dell'Appennino, le donnicciole sussurravano che quei soldati dovevano avere gli zaini pieni di gioielli, di mani tagliate e fin d'orecchi strappati in fretta, con gli anelli ancora alle dita e coi pendenti ancora appiccati: scellerate menzogne, messe da persone tristi e matte nelle loro povere teste. Ma furono fatte star zitte dal buon senso.
A poco a poco le male voci si spensero, e rimase nel Collegio di Carcare che i convittori parlavano del generale Lamarmora come d'un drago e i piemontesi come d'un padre.
Queste cose imparavano i giovanetti che entravano convittori in quel Collegio dopo il 1850.
E un giorno d'estate del 1851, furono visti nel refettorio del Convitto alcuni grandi ufficiali dell'esercito alla mensa dei Padri. Prima del desinare, i convittori grandi avevano osato avvicinarsi a qualcuno di quegli ufficiali, nei corridoi dove andavano curiosando e fermandosi a questo o a quello dei ritratti di principi delle Accademie tenute negli anni addietro. E avevano saputo che erano venuti da Torino a visitare e a studiare i luoghi di Montenotte e di Dego, perché nel veniente settembre vi dovevano condurre molti reggimenti a fingervi le battaglie di Napoleone. Vi sarebbe venuto il Re in persona. Il Re? Non se ne parlava ancora bene, vagava ancora qualche accusa. Come si era diportato a Novara? Il suo nome fu oggetto di questioni tra quei ragazzi, le voci dei quali erano echi di cose udite nelle loro famiglie.
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