Dandola all'Austria ei l'aveva mandata a patire la servitù straniera; dura scuola in cui avrebbe prestissimo appresa la rassegnazione, per tornar italiana, contenta anche di una condizione inferiore. Alla prima occasione l'avrebbe ripresa, come difatti la riprese nove anni dopo nel trattato di Presburgo.
Argusta giustificazione, cui si può rispondere facilmente "senno di poi": ma sarebbe grossolana offesa allo spirito del grandissimo uomo. Certo egli nel 1797 non era ancora ad Austerlitz ma in una testa come la sua, e sapendo egli su qual Francia poteva contare anche un calcolo come quello di cui disse poi a Sant'Elena, poteva essersi mosso, come dovette moversi poi difatto, nello spazio e nel tempo.
E di un'altra cosa si lagnava, a proposito del rimprovero che gli era stato fatto di non aver unificato l'Italia. O non aveva egli dato al proprio figlio il titolo di Re di Roma? Se la sorte gli avesse dato di regnare in pace sicura con tutta l'Europa, almeno vent'anni, come natura gli avrebbe potuto concedere; giunto il Re di Roma a un'età giusta, lo avrebbe associato all'impero, e allora gli italiani avrebbero veduto che cosa sarebbe stato dell'Italia.
Il leggere quelle cose di Sant'Elena, ora che Napoleone è ormai così lontano, mentre il secolo testé chiuso era ancor così pieno di lui, dà una gagliarda malinconia al cuore. Fu necessario alla Francia un uomo che fosse capace di vincere l'Europa, e di far penetrare nelle leggi, nei costumi, nelle coscienze, tutte le conquiste materiali e morali della Rivoluzione?
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