Vengono sbuffando.
[DA MARSALA A CALATAFIMI]Marsala, 11 maggio.
Siedo sopra un sasso, dinanzi al fascio di armi della mia compagnia, in questa piazzetta squallida, solitaria, paurosa. Capitano Ciaccio da Palermo, piange come un bambino dall'allegrezza: io faccio le viste di non vederlo. La compagnia chi qua, chi là, mezzi a cercar da mangiare. Ma al primo squillo, non ne mancherà uno. Dal porto, tirano cannonate a furia contro la città. Su molte case sventolano bandiere d'altre nazioni. Le più sono inglesi. Che vuol dir questo?
* * *
Il Lombardo è quasi sommerso. Il Piemonte galleggia maestoso sull'acqua. Le fregate che ci inseguivano arrivarono a tiro che noi eravamo quasi tutti sul molo. La terra ci mareggiava sotto i piedi; stentavamo a tenerci ritti. La città non aveva ancora capito nulla; ma la ragazzaglia era già lì, venuta giù a turba. Alcuni frati bianchi ci salutavano coi loro grandi cappelli: ci spalancavano le enormi tabacchiere: e stringendoci le mani, ci domandavano: «Siete reduci, emigrati, svizzeri?».
Alle porte della città, comparvero degli ufficiali di marina, in calzoni bianchi; e venivano giù al porto, verso la nave inglese, discutendo agitati. Noi intanto ci stavamo ordinando. A un tratto s'ode un colpo di cannone. Che è? Un saluto! dice sorridendo il colonnello Carini, vestito d'una tunica rossa, con un gran cappello a falda, piumato, in capo. Un secondo colpo, una grossa palla passa, rombando balzelloni, tra noi e la settima compagnia, e caccia in aria l'arena.
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