Forse era un inconscio attizzatore; ma mi piace di immaginarmi che fosse uno messo a posta, a tenerci viva quella fiamma, come la colonna di fuoco agli Ebrei del deserto.
Alla prima luce la pioggia cessò. E vedevamo Palermo lì innanzi, e Monreale appena lontano quanto è larga la Conca d'oro. Guardandoci tra noi avevamo facce di spettri: i panni laceri e fangosi: molti erano quasi a piedi nudi. Stanchi, sfiniti, se ci fosse capitata addosso una compagnia ci avrebbe disfatti.
Discendemmo a questo piccolo villaggio che si chiama Parco.
I Carabinieri genovesi instancabili, si sacrificano e vegliano fuori negli orti, perché noi si riposi tranquilli. Per la piazza ampia, pare un incendio o un inferno. Tutti asciugano i loro panni stando mezzo nudi. Non una finestra aperta.
Non si sa dove sia il Generale, ma Egli veglia per tutti.
22 maggio. Ancora a Parco.
Mi son fatto un amico. Ha ventisette anni, ne mostra quaranta: è monaco e si chiama padre Carmelo. Sedevamo a mezza costa del colle, che figura il Calvario colle tre croci, sopra questo borgo, presso il cimitero. Avevamo in faccia Monreale, sdraiata in quella sua lussuria di giardini; l'ora era mesta, e parlavamo della rivoluzione. L'anima di padre Carmelo strideva.
Vorrebbe essere uno di noi, per lanciarsi nell'avventura col suo gran cuore, ma qualcosa lo trattiene dal farlo.
— Venite con noi, vi vorranno tutti bene.
— Non posso.
— Forse perché siete frate? Ce n'abbiamo già uno. Eppoi altri monaci hanno combattuto in nostra compagnia, senza paura del sangue.
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