Mi dicono che sia un alto ingegno venuto su dall'esercito piemontese. V'era sottotenente dei bersaglieri sin dal quarantotto; ma per non so che sdegno patriottico ne uscì, quando avvennero i fatti di Milano nel cinquantatre. Tutti mi hanno l'aria di star in guardia da lui; buon compagno d'armi ma derisore che dove tocca scotta o leva il brano. Prenderebbe in canzonatura magari il Dittatore; ed io lo chiamo Mefistofele in camicia rossa. È Giovanni Turbiglio.
Giardini, 28 luglio.
Aci Reale, Giarre, Giardini, tre cittadette che il mare le vuole e l'Etna le tira a' suoi piedi come schiave. Si va, si va e sempre questo monte che non finisce mai di mutare aspetti, sempre quelle sue falde fresche d'ombre che uno le gode con gli occhi, tirando innanzi a camminare divorato dal sole, nella strada gialla, polverosa di lava, sulla quale danza un calore che a stender la mano par di palparlo, rete di metallo infocato.
A destra, fin dove può l'occhio, un azzurro di mare che non somiglia punto a quel di Liguria, né a quello là di Marsala. È il nostro bel mare, per tutto, ma qui ha trasparenze profonde, lontane, direi successive come i cieli di Dante. Forse ha senso di godimento sotto questo sole che gli penetra sin nel fondo; perché in quest'ora di mezzodì ha quasi un'aria di infinita bontà. Mi fiderei di dire che vi si può camminare sopra a piedi asciutti, e a guardarlo m'entra nell'anima la soavità squisita di cose intese da fanciullo, i cieli, i laghi, le buone genti di Galilea.
Ma là, oltre quell'ultima linea che altrove par finire in un balzo pauroso alla fantasia, s'indovinano terre come queste e più deliziose.
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