— «Manfredi? Carlo d'Angiò? — seguitava Telesforo. — Il Re d'ora sì, è un Re da fuga! Ieri l'altro Francesco era in mezzo al suoi trentamila soldati: poteva mettersi alla testa di un migliaio di cavalli, tentar un punto della nostra linea, rompere, passare, galoppare a Napoli, trionfarvi! O così, o rimaner ammazzato, passato fuor fuori da uno dei più valorosi nostri, per esempio da Nullo. Non seppe fare né l'una né l'altra cosa, e così è finito. Quanto a Carlo d'Angiò, ora viene Vittorio Emanuele. Seicento anni tra loro: e invece d'un Papa che dica: Va, pigliati il Regno; v'è Garibaldi che dice: Venite! Vorrei vederli quando s'incontreranno Dittatore e Re».
Tornammo ragionando come due frati; ma ogni tanto Telesforo tossiva e diceva d'aver freddo. Con quel suo mantelluccio si stringeva le spalle, e se ne teneva i lembi nelle mani sul petto. Quando ci trovammo tra le nostre sentinelle pareva già l'alba. Dei focherelli morivano su pei greppi di Monte Caro e della Villa Gualtieri; le camicie rosse nel grigio delle sassaie, nel verde ferrigno degli olivi mettevano un rilievo, una vita, quasi dei sentimenti. Sul ponte del Vanvitelli passavano delle file rosse, quete quete allora, andando forse a cambiar le guardie; ma lassù a un certo momento della battaglia s'erano incontrati i bavaresi e i nostri e da quell'altezza n'eran caduti. Dio! fa raccapriccio dirlo. E pensare che ieri l'altro, a quell'ora, il mio caro Traverso si svegliava baldo, e baldi come lui si svegliavano l'altro Traverso e lo Stella, tutti e tre di Marsala, e che prima del mezzodì eran morti e nell'eternità, già antichi come i più antichi defunti!
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