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      I commilitoni l'avevano portato sugli schioppi, ma là, poveretto, era spirato. La donna infelice e don Marco si allontanarono, questi recitando una preghiera tra sè, quella pensando alla madre lontana di quel morto, la quale in quell'ora non aveva alcun sospetto di tanta sventura. E la prese una profonda malinconia, all'idea della fossa, in cui i soldati avrebbero sepolto quel misero; fossa che si sarebbe chiusa come quella d'un bruto. Allora le si diffuse in faccia un'aria di rassegnazione più durevole e pietosa, e volgendosi al prete gli disse:
      «Don Marco, è vero; vi sono al mondo madri più sventurate di me!
      «Eh! signora - rispose il prete - la terra se la dividono in due, la sventura e la ingiustizia...; e in tanti secoli che Gesù è morto, le sue promesse sono di là da compirsi!»
      La signora lo guardò maravigliata, ma tocca da quelle parole; e tirarono innanzi senza dir altro, sino alla casuccia, dove Anselmo col calesse cominciava a spazientarsi, e scerpando manate d'erba, ne dava a mangiare al cavallo. I due s'accomiatarono ridicendo cogli occhi tutto quello che s'erano detto a voce; poi essa si mise dentro il legno, Anselmo si chinò per baciare la mano al prete, che non volle lasciarlo fare: ma come il cavallo partì, diede di volta pensoso, e passo passo lasciandosi menar dalle gambe, se ne tornò a casa.
      Egli era, povero vecchio, il decano dei preti di C..., portava alla meglio i suoi settant'anni, e viveva solo. Da lunga pezza aveva visto addensarsi la bufera, che in quei giorni rumoreggiava terribile dalla Francia; e alcuni che erano stati da lui a scuola, ora che si udivano i fatti, rammentavano certe sue parole, dette molti anni prima, come profezie avverate.


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Le rive della Bormida nel 1794
di Giuseppe Cesare Abba
1875 pagine 480

   





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