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      I monti sui quali lo abbiamo lasciato colle turbe di Val di Bormida, in capo a quattro o cinque giorni, formicavano, come vi si fosse raccolto un esercito di barbari; pronti a calare dove loro fosse venuta bene la preda, per portarsela a quelle sedi alpestri e selvose. Aveva durato a venirvi gente dalle pių remote parti delle Langhe; nč a ricordo d'uomini nč di libri, s'era visto nulla di simigliante. Lassų tutto era andato sossopra, rocce, zolle, alberi per far terrati e ripari: e come a star all'aperto, dė e notte, si diventa industriosi; con certi graticci che sapevano intrecciare assai bene, i boscaiuoli avevano fatto baracche pei capi, i quali dando pochi quattrini cansavano le infreddature. E questi capi erano tanti, che le baracche crebbero di numero, quasi da togliere a quelle montagne l'antico aspetto foresto.
      Gli abitanti della marina lā sotto, avevano paura di quelle plebi pių che dei Francesi giā vicinissimi; e ogni mattina guardavano se vi fossero ancora, e mandavano sui monti messaggi d'amicizia, e saluti, e notizie grosse; per tenerle all'erta, che ad esse non venisse il grillo di calare nei loro borghi, a farvi chi sa che tragedie. Le turbe ricambiavano i saluti, e invece di pensare a discendere laggių, compiangevano chi vi stava.
      Talvolta vedevano navi passare in vista facendo segni con bandiere; ma in quel pararsi di tanti colori non ci capivano nulla. I capi si strappavano fra loro i cannocchiali, e per non essere scortesi rispondevano a quei saluti, bruciando cataste di legna, da mandarne le fiamme alte come d'incendi.


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Le rive della Bormida nel 1794
di Giuseppe Cesare Abba
1875 pagine 480

   





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