E camminando le pareva di aver sognato, su quello che le era stato detto dalla signora, che Tecla, da quel giorno in poi in cambio di andare a pascere il branco, e a spigolare dietro i mietitori, sarebbe rimasta in casa come una figliuola. Il villano che per pietà prese la serpe a scaldarsela in seno; al sentire di Marta non se n'era di certo pentito, come la si sarebbe di poi la signora, inconscia del capriccio annestatosi in capo alla figlia di Rocco. Eppure non poteva avvisarla, non poteva dirle che badasse bene. Perchè don Marco l'aveva consigliata a tacere quel suo sospetto: e per essa contradire un prete, se proprio non v'era tirata pei capelli, valeva quanto usare scortesia ad un angelo del cielo, se l'avesse incontrato per la via, come ai tempi d'Abramo.
Giunta a casa, trovò che la padrona, don Marco e Tecla, facevano colazione, sebbene non fosse peranco l'ora; e vedendo che la fanciulla, servito il latte, ed affettato il pane, sedeva a mensa con essi, assai bene composta; capì con dolore, di non essere necessaria là dentro; ingelosì, corse in cucina, e forse pianse. Tecla s'era accorta dell'animo di lei, e dalla confusione manco non aveva osato levare gli occhi a guardarla. La signora e il prete non badarono ad esse; occupati l'una a pregar l'altro di rimanere, mentre questi si schermiva, e persisteva nel voler partire; e alla fine s'accommiatava che poteva essere un'ora di sole. Passando dinanzi alla casuccia di Rocco, vide costui che dava dentro nel pestello, a fare un savoretto d'aglio da spalmarne la polenta; e capì che il pover'uomo, mezzo scornato la sera innanzi, stava sulla porta a pestare, perchè le donne del vicinato lo vedessero, e fossero persuase che in casa sua v'era tutt'altro che guai, che anzi vi si scialava a mangiare.
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