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      Era il settembre già molto innanzi, e di Francia giungevano ai campi della Liguria nuove armi, e nuovi armati. Di su di giù per quei borghi, era un moto confuso, un andare e tornare di messi, un ridestarsi come di gente che riposatasi un tratto, stesse per mettersi ad altre imprese. E i soldati della Repubblica cominciando a fiutare imminenti battaglie; cantavano a cori quella Marsigliese maravigliosa, che nelle guerre d'allora, dovè toccare profondamente i cuori, tanto di chi voleva la libertà, quanto di chi la contrastava con egual furia. Giuliano non aveva udito mai nulla di più alto; e in quei canti, gli pareva suonassero insieme le note dell'organo che l'avevano fatto piangere bambino; la voce di don Marco quando traduceva alla scolaresca il cœli enarrant, cogli occhi levati e gonfi di lagrime e di desìo; il grido di tutte la generazioni passate nella sventura, udito da lui nello studio della storia; e la bufera, e il sereno, e l'odio, e l'amore, tutto vi trovava ascoltando da lungi: mentre il mare col suo flottare a tratti, parea rispondere a ciascuna pausa dell'inno una voce, voce dell'infinito che dicesse: «è vero!» Allora provava una smania di correre, e il primo generale Francese che gli venisse fatto d'incontrare, pregarlo d'un'arme, d'un'assisa, d'un posto in quelle schiere: senonchè l'immagine della madre gli si mostrava in quei furori generosi; mesta, timorosa, cogli occhi bassi, come un'amante offesa, e gli sussurrava dolcemente: «tu in battaglia potresti sfogarti e morire; ma io a saperti armato per queste nostre contrade come un nemico, io che farei?


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Le rive della Bormida nel 1794
di Giuseppe Cesare Abba
1875 pagine 480

   





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