Ma ahimè! Il vivo non era del valore del morto. Però la inquadravano degli ufficiali subalterni che bastavano a raccoglier l'anima della compagnia come un'arma corta nel pugno. V'era tra essi Faustino Tanara del parmigiano, una specie di Rinaldo combattente per la giustizia in un mondo che a lui fu ingiusto e che non seppe mai il cuore che egli ebbe. In quella compagnia, nulla di regionale. C'erano un centinaio di uomini di tutte le terre italiane, vi si sentivano tutte le nostre parlate, vi si vedevano delle teste di tutte le tinte, e di grigie e di bianche parecchie. Mesto a pensarsi, vi si trovavano parecchi trentini tra i quali Giuseppe Fontana, Attilio Zanoli, Camillo Zancani, che morirono poi vecchi, senza la gioia di aver visto libera la loro bella terra di Trento.
Ma ecco alla sesta il più bello degli otto capitani. Era un biondo di trentatré anni, alto, snello, elegante. Si sarebbe detto che se avesse voluto volare, subito gli si sarebbero aperte al dorso due ali di cherubino. Parlava un bell'italiano con leggero accento meridionale, gestiva sobrio e grazioso come un parigino; nel portamento pareva un soldato di mestiere, negli atti e nei discorsi un Creso vissuto tra le delizie dell'arte, in qualche gran palazzo da Mecenate. Si chiamava Giacinto Carini, nome di borghesi e nome anche di principi siciliani che a lui, già nobilissimo della persona, dava un'aria alta e singolarmente aristocratica. In lui v'era il generale che sei anni dopo avrebbe comandata una brigata italiana all'attacco di Borgoforte.
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