Aveva una testa che sembrava una mazza d'armi, ma l'espressione della sua faccia ricordava quella di certi santi anacoreti. Sapeva poco, discorreva poco; ostinato nell'idea che gli si piantava nel capo, a chi lo vinceva di prove gridava: "Appiccati!" ma lo abbracciava e gli dava subito ragione, intenerito e devoto. Per tutte queste sue doti, e perché aveva già quarantacinque anni, gli si erano lasciati volentieri metter sotto Vittore Tasca, Luigi Dall'Ovo, Daniele Piccinini, coi loro bergamaschi, quasi un centinaio e mezzo di quella gente Orobia, quadrata e intrepida sempre, sia che scelga la patria per suo culto, sia che ad altri ideali volga il pensiero: quella che parve ai siciliani formidabile per gli ardimenti sulle barricate, e per la serena fidanza nei vini dell'isola, bevuti ai banchetti liberamente, senza perdere dignità né d'atti né di parole.
Vittore Tasca aveva trentanove anni, ed era una strana testa, che con un po' di studi forse sarebbe riuscita d'un artista. Con quelli ch'egli aveva fatti era rimasto qualcosa di mezzo tra un commerciante geniale e un agricoltore. Conosceva le vie del Levante dove era andato per seme di filugello, e si trovava appunto sulle mosse di tornarvi, quando sentì della spedizione garibaldina. Allora piantò ogni cosa e seguì Garibaldi, cui si diè tutto e cui nella tarda età dedicò quasi bosco sacro una sua villetta in Brembate, dove fino al 1892 raccolse ogni anno anche da lontano i suoi amici, a commemorare in una cerimonia all'antica il gran Duce.
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