Il monaco rispondeva che pur ammirando Garibaldi gli pareva che quella ch'egli combatteva non fosse la guerra di cui la Sicilia aveva bisogno. L'unità d'Italia e la libertà pel vero popolo siciliano erano quasi nulla. Che potevano farsene quelle plebi ancora oppresse da tutte le ingiustizie, altrove, in Piemonte, in Lombardia, levate da un secolo? Non avevano visto essi venuti da fuori, per quel poco che avevano già corso dell'isola, quanta era la miseria e quanta l'abiezione di quelle plebi? La libertà non era pane per lo stomaco e nemmeno per lo spirito; anzi sarebbe poi per i già prepotenti un mezzo per opprimere di più. In Sicilia era necessaria una guerra che trasformasse la società e la vita, facendo guadagnare al popolo il tempo che per forza gli era stato fatto perdere. Non vedeva Garibaldi che la Sicilia era ancora quasi come doveva essere stata ai tempi delle guerre servili di venti secoli avanti? Insomma quel monaco voleva la guerra non soltanto contro i Borboni, ma contro tutti gli oppressori grandi e piccoli, che si trovavano laggiù dappertutto.
Il garibaldino cui pareva di non capir quasi come un monaco parlasse a quel modo, gli diceva che allora quella guerra ch'egli voleva avrebbe dovuto esser fatta anche contro i frati ricchissimi, e molti. E il monaco ardente rispondeva che sì, che anche contro i frati si doveva farla, contro di essi prima che contro d'ogni altro, ma col Vangelo in mano e con la Croce: che allora anch'egli ci si sarebbe messo, ma che così come era fatta e per quel che era fatta, gli pareva inutile.
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