Scillirati, infami!" E davano dentro da disperate a portar pietre e sacchi di terra.
Il Comitato delle barricate, composto di cittadini esperti ancora del 1848, presedeva a quel lavoro che metteva sossopra il lastrico di ogni via. E già si vedevano uomini sugli orli dei tetti ad ammonticchiarvi tegole, uomini sui balconi a preparar mobili da buttar giù, se mai le milizie borboniche si fossero avventurate.
Ma quelle milizie non si muovevano all'offensiva. Anzi, verso le sedici, come si diceva là all'uso antico d'Italia, il general Cataldo che occupava i pressi di Porta Macqueda, i Quattro venti e il Giardino inglese, assalito dalla città, tormentato alle spalle dai 'Picciotti', si ritirava al Palazzo reale; e al Palazzo reale si ripiegava il generale Letizia, scacciato dal rione Ballerò. Sicché al Palazzo e nella piazza e negli orti intorno, si trovavano da dodicimila soldati, sotto il generale Ferdinando Lanza, alter ego del Re, uomo di 72 anni che aveva a lato Maniscalco, il fiero capo della polizia. E allora le carceri non più custodite si apersero, e ne sbucarono duemila condannati, orribile ingombro gettato tra i piedi alla rivoluzione, perché potevano solo disonorarla. Ma Garibaldi provvide. Vietò d'andar armati senza dipendere da un capo; vietò di perseguitar i birri sperduti; decretò pena di morte al furto, al saccheggio: fece tremare e fu ubbidito.
Lavoravano intanto i mortai di Castellamare, che nel pomeriggio di quella prima giornata presero specialmente di mira il Palazzo pretorio, sul quale misuravano l'arcata delle loro bombe.
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