Si dava da mangiare anche nei refettorii e nei parlatorii dei monasteri. Folle di monacelle bianche si premevano a guardar dalle porte, e parevano stormi alati d'angeli, discesi come nella poesia a contemplar i figli degli uomini. Qualcuna osava, correva quasi ad occhi chiusi, e al primo cui le capitava di stendere le braccia metteva al collo una reliquia, subito fuggendo beata come se avesse rapita un'anima al purgatorio. Colui per quella non pericolava più. Invece delle vecchie suore si mettevano a discorrere in mezzo agli ospiti armati e laceri e sporchi di polvere; e li interrogavano curiose, e domandavano se Garibaldi era cristiano, giovane, bello, e li pregavano di vincere e di tornare poi a dar loro le notizie, a difender loro, povere monacelle, dalle genti borboniche crudeli. Non sapevano ancora che i monasteri dei Sette Angeli e della Badia nuova erano stati saccheggiati, né che quello di Santa Caterina bruciava.
Lì sì! C'era bisogno d'aiuto! Ma nel gran trambusto che assordava tutti, nessuno aveva ancor badato che lì come altrove c'era l'incendio. Eppure il monastero sorgeva a lato del Palazzo pretorio! Il fuoco vi aveva cominciato dal tetto, a cagione di una bomba di quelle destinate al Palazzo, scoppiata in aria. E l'incendio era disceso di piano in piano. Solo verso la sera del 28, qualcuno pensò che là dentro c'erano delle povere creature. E allora, sfondata la porta del monastero, vi entrarono dieci o dodici Cacciatori delle Alpi con dei 'Picciotti', a tentar di salvarle.
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