— Ragazze, ragazze, state un po’ zitte un minuto! Questa lettera deve partire col primo treno e voi mi fate perdere la testa col vostro chiasso — gridò la signora March, scancellando per la terza volta una frase sbagliata nel suo scritto.
— Divertiti coi tuoi gatti e fatti passare il mal di capo, Beth; addio mammina; siamo una compagnia di screanzate stamani, ma torneremo a casa dei veri angeli. Andiamo! Meg — e Jo s’incamminò a grandi passi verso la porta, sapendo pur troppo, che il loro pellegrinaggio non era incominciato nel modo migliore.
Quando arrivavamo alla cantonata, le due ragazze si voltavano perché era l’abitudine della mamma di stare alla finestra e salutarle con la mano sorridendo. Senza questo esse non avrebbero potuto compiere il loro lavoro, perché qualunque fosse il loro umore, la vista del volto sorridente della mamma era, per loro, come un ultimo caldo raggio di sole.
— Se la mammina ci minacciasse col pugno invece di mandarci un bacio colla mano quando andiamo via, farebbe proprio bene, perché ragazzaccie più ingrate di noi non ci sono; al mondo — disse Jo, sentendo, con una specie di soddisfazione penitente, il vento gelato che le sferzava il volto.
— Non adoperare quelle orribili espressioni, Jo! — disse Meg dietro al fitto velo in cui si era avvolta come una monaca che rifugga dal mondo.
— Mi piacciono le espressioni vigorose che dicano qualcosa — replicò Jo, afferrando con tutt’e due le mani il cappello che si preparava a prendere un volo.
— Di’pure quel che vuoi, ma io non sono né una screanzata né una ragazzaccia e non ho piacere che tu mi chiami con quel nome.
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