E nasce in lui giustamente il timore della coscienza della propria debolezza effettiva, e in un tempo, dell'accattata sterminata sua forza ideale. Rabbrividisce nella sua reggia il tiranno (se l'assoluta autorità non lo ha fatto stupido appieno) allorché si fa egli ad esaminare quale smisurato odio il suo smisurato potere debba necessariamente destare nel cuore di tutti.
La conseguenza del timor del tiranno riesce affatto diversa da quella del timore del suddito; o, per meglio dire, ella è simile in un senso contrario; in quanto, né egli, né i popoli, non emendano questo loro timore come per natura e ragione il dovrebbero; i popoli, col non voler più soggiacere all'arbitrio d'un solo; i tiranni, col non voler più sovrastare a tutti per via della forza. Ed in fatti, spaventato dalla propria potenza, sempre mal sicura quando ella è eccessiva, pare che dovrebbe il tiranno renderla alquanto meno terribile altrui, se non con infrangibili limiti, almeno coll'addolcirne ai sudditi il peso. Ma, nella guisa stessa che i sudditi non diventano disperati e feroci, ancorché altro non resti loro da perdere se non una misera vita; così, neppure il tiranno diventa mite ed umano, ancorché altro non gli rimanga da acquistare, se non la fama, e l'amore dei sudditi. Il timore e il sospetto, indivisibili compagni d'ogni forza illegittima (e illegittimo è tutto ciò che limiti non conosce) offuscano talmente l'intelletto del tiranno anche mite per indole, che egli ne diviene per forza crudele, e pronto sempre ad offendere, e a prevenire gli effetti dell'altrui odio meritato e sentito.
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