CAPITOLO QUARTO.
QUAL FINE SI PROPONGA IL PRINCIPE, E QUALE LE LETTERE.
Se comunanza può esservi, amistà, concordia, e legami fra gli uomini, la parità del fine che si propongono, e la reciprocità d'interesse, li generano sole e mantengono.
Ma, che pari siano il fine e l'interesse del principe, e quelli del vero letterato, chi asserirlo ardirebbe? Vuole, e dee volere il principe, che siano ciechi, ignoranti, avviliti, ingannati ed oppressi i suoi sudditi; perchè, se altro essi fossero, immediatamente cesserebbe egli di esistere. Vuole il letterato, o dee volere, che i suoi scritti arrechino al più degli uomini luce, verità, e diletto. Direttamente dunque opposte sono le loro mire. Si propone il principe per fine dell'arte sua la illimitata ed eterna potenza; mista di gloria, se gli vien fatto; se no, a ogni modo potenza ed impero. Il letterato null'altro si propone (nè proporre si dee) se non se schiettissima gloria; ed ogni altra cagione che il muova, lo toglie tosto dalla classe dei veri letterati. Alla pura e intera gloria di scrittore necessariamente va annesso l'utile dei più; perchè senza esso non basta il solo diletto a procacciar vera gloria. Ora, l'utile dei più, manifesta cosa è che egli non può essere mai l'utile del principe, il quale d'altro non sussiste, se non della cecità e danno dei più. Sono dunque costoro, per necessaria conseguenza dell'arte loro, amici degli uomini gli uni, nemicissimi gli altri: in nulla quindi non possono, nè debbono, tra lor concordare.
Ma, qual ragione pure li riunisce sì spesso? desiderio di gloria non meritata, nei principi; desiderio di falsi onori e di ricchezze non lecite, nei letterati.
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