E, più d'ogni altro ente, il principe mi conferma quel profondo assioma del divino Machiavelli: Che gli uomini non sanno essere nè del tutto buoni, nè del tutto cattivi. Dicesi che il gran Voltaire nella sua gioventù avesse mostrato assai desiderio di servire il re in commissioni estere; ed io facilmente m'induco a crederlo, poichè questo autore, immemore in ciò di se stesso, non arrossì di sempre firmarsi: Voltaire, gentiluomo di camera del re. Il principe, o il ministro che non lo impiegò, commise dunque nell'arte principesca un errore non picciolo: Voltaire, impiegato dal re, e rappresentante il re, diveniva piccolo quanto il suo rappresentato; era vinto e legato per sempre; nulla avrebbe scritto, o poco, o quello soltanto che si sarebbe voluto. Così un autore sommo veniva trasfigurato in un ambasciatore mediocre, o forse anche ottimo; così si accresceva la gloria al re, e si diminuiva luce al popolo; così, finalmente, non si sarebbe dovuto soffrir poi per parte dei dominanti quell'umiliante confronto di veder Voltaire ne' suoi ultimi giorni in Parigi applaudito, seguitato, acclamato, e trionfante più assai, che nessun principe il fosse mai stato. E verrà un tempo, in cui non si saprà altrimenti come fosse numerato quel Lodovico che allora regnava, se non perchè trionfava a quel tempo in Parigi un Voltaire.
I principi dunque, che vogliono sottrarre da tanta vergogna se stessi, e ad un tempo sfuggir la tempesta, debbono, nel premiare gli scrittori, dar sempre loro tali onori, o mercedi, che interamente li distolgano dallo scrivere cose veramente grandi: e, allacciandoli colla gratitudine, direttamente o indirettamente li debbono costringere a disonorare se stessi, e a screditare le loro filosofiche massime, contaminandole colle lodi dei principi inopportunamente frammiste.
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