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      Parlando io dunque ai grandi ingegni (ma ai soli e pochi grandissimi) che per ingiustizia di fortuna si trovano esser nati poveri, dico loro; che se vengono a conoscere se stessi in tempo, debbono da prima, ove sia possibile, con qualunque altra arte migliorare la loro sorte, per poi potersi, per mezzo della indipendenza, valere del loro ingegno liberamente. E di ciò gli scongiuro, per quel sommo utile, che dai loro scritti ne può ridondare agli uomini tutti; e per quella purissima gloria, che ad essi ne dee ridondare. Ma, se non possono assolutamente procedere nel modo su divisato, li consiglio a desistersi dalla impresa dello scrivere, e a cercare altri mezzi per campare; che tutti, in ogni tempo e governo, riescono a ciò più atti che non il mestier delle lettere. In una parola in somma, io dico; che all'ingegno dee bensì la ricchezza servire, ma non mai alla ricchezza l'ingegno.
      Se il più nobile, se il più elevato, il più sacro, e quasi divino ufficio tra gli uomini si è quello di voler loro procacciare dei lumi, dilettare la loro mente, infiammarli d'amore di vera virtù, e di nobile gara in ben fare; ardirà egli mai eleggersi ad una così importante impresa colui, che per necessità vien costretto ad essere, o a farsi vile? In molte e in quasi tutte le democrazie, sono esclusi dai voti i nulla tenenti; i Greci liberi proibivano ai servi l'esercitare per fino la pittura: e all'esercizio di una così nobile arte quale è lo scrivere; in una repubblica così augusta, quale esser dee quella delle sacre lettere, si ammetteranno i desideranti, i domandanti, o gli abbisognosi d'altro, che di schietta e sublime gloria?


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Del principe e delle lettere
di Vittorio Alfieri
Dalla Tipografia di Kehl
1795 pagine 165

   





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