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      Mi si dirà, che anche noi procuriamo di ricavar dalle lettere tutti questi vantaggi. Ma io rispondo; che gli artisti nostri non sono tali da poterceli procacciare; perchè, nè arte oratoria, nè storia, nè filosofia vera non possono mai scaturire da un animo servo, nè penetrare gli orecchi e il cuore di popoli servi: e, molto meno la poesia, maneggiata da servi artefici, può altamente trattare alte cose, senza contaminarle coll'errore, col timore, e colla servile adulazione. Quindi è che fra noi, tutto il fiore del bel dire, tutto il sapore della eloquenza, non divenendo mai per così dire l'ammanto della verità, questa energia, brevità, evidenza, e naturalezza dei nostri scrittori pare sempre accattata e mancante, perchè non viene a comporre uno stile adattato alle cose.
      Ma vi sono alcuni momenti, in cui un popolo, già stato libero e non vile, all'uscire dalla sua rozzezza ed onestà di costumi, e all'entrare nella colta corruzione, riunisce istantaneamente in se, benchè menomati e non perfetti, i due semi della passata potenza e della presente coltura. Scemando poi ogni giorno più la virtù, e deviandosi l'eloquenza dal vero, quella luce, quasi un passeggero lampo, interamente tosto svanisce. Così Roma ebbe scrittori sublimi sì nel pensare che nella eleganza, in quel breve secolo, in cui rimembrò ella ancora la perduta libertà e la grandezza della passata repubblica: inoltratasi quindi nella servitù, tanta era stata la primitiva sua forza, che diede ancora alle morenti lettere un Giovenale ed un Tacito; ma li diede soli: invecchiata poi nel servire, non ebbe più nulla affatto di grande.


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Del principe e delle lettere
di Vittorio Alfieri
Dalla Tipografia di Kehl
1795 pagine 165

   





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