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      Parmi innegabile, che Virgilio in questo luogo, e in mille altri simili, abbia voluto piacere ad Augusto più che a se stesso; e che in ciò solo abbia ardito scostarsi da Omero, il quale non tradì mai il vero e se stesso per adular chi che fosse; e che poco si sia egli ricordato della grandezza di Roma, e meno curato della propria fama fra i posteri. Virgilio dunque, nell'atto di scriver tal cosa, o non sentiva, o, (che peggio è) sentiva egli e tradiva l'importanza del sublime suo incarico fra i suoi coetanei; di essere il poeta nazionale di un popolo, il primo che mai fosse stato sul globo, e che ridottosi allora schiavo di fresco, non ne era ancora certamente divenuto l'ultimo. Virgilio non conoscea dunque se stesso, poichè non si supponeva da tanto, di potere, con la bellezza ed energia del suo verseggiare divino, riaccendere a libertà e a virtù quel popolo, qual ch'ei si fosse. E se egli anche non potea pure lusingarsi di tanto ottenere, un poeta veramente romano avrebbe soddisfatto almeno a se stesso, alla patria, e alla fama e gloria d'amendue, col solamente tentarlo. Ma, potremmo noi credere mai, che Virgilio, quel sovrano scrutatore degli umani affetti, queste cose tutte al par di noi non sapesse? no certo. Eppure ei fece il contrario; e perchè? perchè non seppe, o non ardì egli conoscere e stimare se stesso. E perciò egli ha fatto il suo libro assai minore di quello che avrebbe pur potuto e dovuto essere; e perciò egli ha fatto se stesso minor del suo libro.
      Se egli dunque non avesse avuto nell'animo quella viltà, che sempre dà il pane principesco, assai maggiore sarebbe stato egli stesso, e quindi assai maggiore il suo libro.


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Del principe e delle lettere
di Vittorio Alfieri
Dalla Tipografia di Kehl
1795 pagine 165

   





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