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      Che niuna cosa non viene chiamata mai somma, finchè si ha pure idea di un meglio, eseguibile. In un poema che ha per titolo, ROMA; quale, senza però darglielo, ha preteso di fare Virgilio; egli vi poteva e dovea inserire, per la parte robusta pensante e giovevole, una grandezza, verità, libertà, e forza, che invano vi si cercano. Virgilio dunque ha tradito in ciò la gloria di Roma, scambiandola (e non a caso) con quella dei Cesari; e ad un tempo stesso egli ha di gran lunga menomato la propria. E tutto ciò, perchè Virgilio non ha pienamente conosciuto, o voluto, o ardito conoscere, stimare, e piacere a se stesso.
      E questa parola SE STESSO, ch'io tanto ribatto, si dee talmente dall'artefice in tutta la sua immensità immedesimare colla parola VERO, che quando egli dice dopo il maturo esame d'una opera sua, come d'una altrui, NON MI PIACE, equivaglia ciò per l'appunto al dire, NON CI È IL VERO: con quelle picciole restrizioni però, che le facoltà limitate dell'uomo richiedono pur sempre; ma, che non sostituiscono tuttavia mai il falso al vero.
      Alcuni, per distruggere in una parola quanto io finora ho ragionato intorno a Virgilio, diranno; che egli non avrebbe forse scritto nulla, senza la protezione d'Augusto. Rispondo; che così può essere, e ch'io stesso così credo; e che a ogni modo noi dobbiamo pur essere molto tenuti ad Augusto di un tanto poema, in cui ciò che manca non si suol mettere in contrappeso dai più con tutto quel che vi abbonda. Gli amatori principalmente di poesia, che con tanto trasporto leggono e debbon leggere l'Eneide, così dicono; e così debbono dire.


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Del principe e delle lettere
di Vittorio Alfieri
Dalla Tipografia di Kehl
1795 pagine 165

   





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