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      Se dunque il letterato, uomo per se privatissimo e oscuro, senza nessun'altra potenza nè autorità, che quella del proprio ingegno; se il letterato osa pur concepire il sublime disegno di voler da se solo persuadere gli uomini, rettificare i loro pensieri, illuminarli, difenderli, dilettarli, convincerli, e far forza ai più; chiara cosa è, ch'egli dovrà aggiungere al molto ingegno naturale, alla dottrina necessaria e bastante al soggetto, al caldo e puro parlare, una altissima stima di se stesso: e non solamente la stima del proprio ingegno, ma della illibatezza dell'animo, del severo costume, della virtuosa e libera sua vita, non contaminata (per quanto si può) da nessuna macchia di timore, di dipendenza, nè di viltà. Che se egli non si reputa e conosce per tale, come ardirà lo scrittore insegnar la virtù, che non ha praticata? altro non sarebbe, che uno svergognare e condannare se stesso. Ma, se egli tal non si reputa, come potrà egli tale mostrarsi? Lo scrittore crede, e pretende, di parlare a tutti. Uno scrittore onorato non dee commettere alla carta veruna cosa, che egli in savia e ben costituita repubblica non ardirebbe pronunziare di bocca ad un popolo intero. Non dee dunque mai porre in iscritto cosa, che non creda esser vera e retta; e che, come tale, non segua primo egli stesso, per quanto è possibile.
      Una moderna opinione, sfacciata ad un tempo e timida e vile, asserisce che il lettore dee giudicare il libro e non l'uomo. Io dico, e credo, e facile mi sarebbe il provare; che il libro è, e deve essere la quintessenza del suo scrittore; e che, se non è tale, egli sarà cattivo, debole, volgare, di poca vita, e di effetto nessuno.


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Del principe e delle lettere
di Vittorio Alfieri
Dalla Tipografia di Kehl
1795 pagine 165