Ma, chi vorrà pur trovarvi onde piangere, e con ragione, da quegli stessi passi ne ricaverà non picciolo dolore, riflettendo che da quei mezzi tocchi, e da quelle massimette di semilibertà snervate in versi eleganti, ne nasce assai più danno che utile alla universalità dei lettori. Dal poco dire, ne risulta il meno sentire; e dal sentir poco, allorchè un tale effetto si trae da un autore di grido com'è Virgilio, se ne cava questa falsa induzione; che in un buon libro (e massime di poesia) molte cose importantissime vi si debbano piuttosto tacere, o appena accennare, che scolpire. Non mancava a Virgilio null'altro, che l'alto e robusto pensar di Lucano; ma questa mancanza ad ogni pagina vi si fa grandemente sentire. Se non isbaglio, gli epiteti sono quelli che meglio svelano l'animo, le circostanze, e il più o men forte sentire dello scrittore. Esaminiamo rapidamente, sotto questo aspetto, l'epitetar di Virgilio.
Nel sesto libro, parlando egli d'Augusto, ne dice in diciotto versi ciò che mai d'uomo nessuno dir non potrebbesi senza sfacciata menzogna, e senza che parimente non arrossissero il lodatore e il lodato: ma in quei diciotto versi non ci osservo altro che il vile. Proseguiamo. Nominando egli i Tarquini, cioè quegli abbominevoli tiranni, la cui sola espulsione di Roma la fece poi grande, Virgilio dice: Tarquinios reges(6); e non vi aggiunge epiteto nessuno: perchè ogni giusto epiteto che avesse loro dato, veniva ad essere per l'appunto l'epiteto, che in vece dei diciotto versi sopraccennati, meritamente e solo spettava ad Augusto.
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