Ed in fatti (se pur mi dicono il vero quei che sanno di greco e latino; che io del primo nulla so, e nell'altro piuttosto indovino che intendere) nessuno desidera in Omero, od in Pindaro, la eleganza di Virgilio e d'Orazio; poichè quanta ne hanno costoro, tutta da quelli per imitazione l'han tolta; ma, chi è che non desideri sotto il divino pennelleggiar di Virgilio il fecondo inventare d'Omero; il dignitoso e libero dialogizzare di Sofocle, d'Euripide, e di Lucano; il robusto conciso pensare e sentire di Tucidide e di Tacito?
Quindi, a me pare, che il principato permette, nudrisce, intende, e assapora i mezzi poeti; cioè i molto descriventi narranti e imitanti, ma poco operanti, e nulla pensanti; ma che degli interi poeti (quali alcuni ne sono stati, o essere possono in natura) non gli ebbe mai, nè gli avrà, che la sola repubblica.
Se dunque le lettere non sono ciò che per se stesse elle dovrebbero essere, il difetto non sta certamente nelle lettere. Altro limite non conoscono elle che il vero; e solo se lo propongono per fine. Ma, e gli uomini che le trattano, e gli uomini che se ne prevalgono, quando son trattate dagli altri; e gli uomini che, governando, o le lasciano fare, o le impediscono, o le deviano; questi uomini tutti, imprimono alle lettere il marchio, direi così, del loro proprio intimo valore. Quindi è, che da un principe proteggente, da pochi e non liberi lettori, da molti autori tremanti o protetti (che sinonimi sono) si viene a procreare una tale specie di letteratura, che non eccedendo lo stato di convalescenza degli animi di costoro, dee perciò rimanere di gran lunga indietro dalla intera pompa delle umane intellettuali facoltà. E però ci convien pure, vergognando, tergiversando, e sommessamente mormorando, dalle sole ben costituite repubbliche ripetere in ogni qualunque genere i più alti sforzi dello ingegno dell'uomo.
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