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      E credo, che ad ogni letterato perdonare e concedere si potrebbe, il volersi delle lettere far base e scala a divenir console in Roma a quei tempi: cioè, a divenir più grande, più importante, e possente di assai più largo nobile e legittimo dominio, che nol sono dieci dei nostri moderni re, presi a fascio. Ma pure, nel perdonargli una tale ambizione, bisognerebbe confessare ad un tempo, che codesto scrittor-consolo nuocerebbe non poco alla perfezione dell'arte sua; e si dovrebbe pur sempre riguardare da chi è ben sano di mente, come un traditore delle lettere. Costui dunque in suo cuore avrebbe creduto essere maggior cosa un console, che uno perfetto scrittore; e che quella pubblica carica, data da altrui, fosse più importante cosa che non la sua privata altissima carica di scrittore; carica che niuno può dare, nè torre: non si sarebbe ricordato costui, che dei consoli ve ne erano stati a centinaja, e che gli eccellenti
      scrittori ad uno ad uno e pochi si annoverano: e da questa sola colpevole dimenticanza del primato innegabile dell'arte sua sovra tutte, ecco tosto lo scrittore fatto minore della propria arte.
      Tolta adunque ai letterati ogni speranza ambiziosa, o nociva nelle repubbliche; tolta loro ogni ambizione di onori e di ricchezze nel principato; ad essi non resta, oltre alla gloria, altri premj che non gli avviliscano, fuorchè i semplici onori nelle repubbliche. E dico espressamente, i semplici onori; e non le cariche o dignità; perche queste non si possono ottenere senza gareggiare coi concorrenti; e il gareggiare, allorchè in virtù schiettamente non si gareggia, suppone sempre un raggiro, e delle pratiche non letterarie affatto, e indegne perciò d'un vero letterato.


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Del principe e delle lettere
di Vittorio Alfieri
Dalla Tipografia di Kehl
1795 pagine 165

   





Roma