Comunque accadesse dunque questa mia acquisizione, io m'ebbi un Ariosto. Lo andava leggendo qua e là senza metodo, e non intendeva neppur per metà quel ch'io leggeva. Si giudichi da ciò quali dovessero essere quegli studi da me fatti fin a quel punto; poiché io, il principe di codesti umanisti, che traduceva pur le Georgiche, assai piú difficili dell'Eneide, in prosa italiana, era imbrogliato d'intendere il piú facile dei nostri poeti. Sempre mi ricorderò, che nel canto d'Alcina, a quei bellissimi passi che descrivono la di lei bellezza io mi andava facendo tutto intelletto per capir bene: ma troppi dati mi mancavano di ogni genere per arrivarci. Onde i due ultimi versi di quella stanza, Non cosí strettamente edera preme, non mi era mai possibile d'intenderli; e tenevamo consiglio col mio competitore di scuola, che non li penetrava niente piú di me, e ci perdevamo in un mare di congetture. Questa furtiva lettura e commento su l'Ariosto finí, che l'assistente essendosi avvisto che andava per le mani nostre un libruccio il quale veniva immediatamente occultato al di lui apparire, lo scoprí, lo confiscò, e fattisi dar gli altri tomi, tutti li consegnò al sottopriore, e noi poetini restammo orbati d'ogni poetica guida, e scornati.
CAPITOLO TERZO
A quali de' miei parenti in Torino venisse affidata la mia adolescenza.
Nello spazio di questi due primi anni d'Accademia, io imparai dunque pochissimo, e di gran lunga peggiorai la salute del corpo, stante la total differenza e quantità di cibi, ed il molto strapazzo, e il non abbastanza dormire; cose in tutto contrarie al primo metodo tenuto sino ai nove anni nella casa materna.
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