Io aveva l'avvertenza di ben restringere i tomi vicini, tosto che ne avea levato uno; e cosí mi riuscí in quattro giorni consecutivi di riavere i miei quattro tometti, dei quali feci gran festa in me stesso, ma non lo dissi a chi che si fosse. Ma trovo pure, riandando quei tempi fra me, che da quella ricuperazione in poi, non lo lessi quasi piú niente; e le due ragioni (oltre forse quella della poca salute che era la principale) per cui mi pare che lo trascurassi, erano la difficoltà dell'intenderlo piuttosto accresciuta che scemata (vedi rettorico!) e l'altra era quella continua spezzatura delle storie ariostesche, che nel meglio del fatto ti pianta lí con un palmo di naso; cosa che me ne dispiace anco adesso, perché contraria al vero, e distruggitrice dell'effetto prodotto innanzi. E siccome io non sapeva dove andarmi a raccapezzare il seguito del fatto, finiva col lasciarlo stare. Del Tasso, che al carattere mio si sarebbe adattato assai meglio, io non ne sapeva neppure il nome. Mi capitò allora, e non mi sovviene neppure come, l'Eneide dell'Annibal Caro, e la lessi con avidità e furore piú d'una volta, appassionandomi molto per Turno, e Camilla. E me ne andava poi anche prevalendo di furto, per la mia traduzione scolastica del tema datomi dal maestro; il che sempre piú mi teneva indietro nel mio latino. Di nessun altro poi de' poeti nostri aveva io cognizione; se non se di alcune opere del Metastasio, come il Catone, l'Artaserse, l'Olimpiade, ed altre che ci capitavano alle mani come libretti dell'opera di questo, o di quel carnovale.
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