Quel mio affetto per Andrea che mi avea pur dato tanti dolori, era in me un misto della forza abituale del vederlo da sett'anni sempre dintorno a me, e della predilezione da me concepita per alcune sue belle qualità; come la sagacità nel capire, la sveltezza e destrezza somma nell'eseguire; le lunghe storiette e novelle ch'egli mi andava raccontando, ripiene di spirito, di affetti e d'imagini; cose tutte, per cui, passato lo sdegno delle durezze e vessazioni ch'egli mi andava facendo, egli mi sapea sempre tornare in grazia. Non capisco però, come abborrendo tanto per mia natura l'essere sforzato e malmenato, mi fossi pure avvezzato al giogo di costui. Questa riflessione in appresso mi ha fatti talvolta compatire alcuni principi, che senza essere affatto imbecilli si lasciavano pure guidare da gente che avea preso il sopravvento sovr'essi nell'adolescenza; età funesta, per la profondità delle ricevute impressioni.
Il primo frutto ch'io raccolsi dalla morte dello zio, fu di poter andare alla Cavallerizza; scuola che sino allora mi era sempre stata negata, e ch'io desiderava ardentissimamente. Il priore dell'Accademia avendo saputa questa mia smaniosa brama d'imparare a cavalcare, pensò di approfittarsene per mio utile; onde egli pose per premio de' miei studi la futura equitazione, quand'io mi risolvessi a pigliare all'Università il primo grado della scala dottoresca, chiamato il magistero, che è un esame pubblico alla peggio dei due anni di logica, fisica e geometria. Io mi vi indussi subito; e cercatomi un ripetitore a parte, che mi tornasse a nominare almeno le definizioni di codeste mal fatte scuole, in quindici o venti giorni misi assieme alla diavola una dozzina di periodi latini tanto da rispondere a quei pochi quesiti, che mi verrebbero fatti dagli esaminatori.
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