L'amico soavemente aggiungeva in voce, che non v'essendo rimedio, bisognava dar luogo alla necessità ed alla ragione.
Non sarei forse reputato veridico, se io volessi annoverare tutte le frenesie dell'addolorato disperato mio animo. A ogni conto voleva io assolutamente morire, ma non articolai però mai tal parola a nessuno; e fingendomi ammalato perché l'amico mi lasciasse, feci chiamare il chirurgo perché mi cavasse sangue, venne, e me lo cavai. Uscito appena il chirurgo, io finsi di voler dormire, e chiusomi fra le cortine del letto io stava qualche minuti fra me ruminando a quello ch'io stava per fare, poi principiai a sfasciare la sanguigna avendo fermo in me di cosí dissanguarmi e perire. Ma quel non meno sagace che fido Elia, che mi vedea in tale violento stato, e che anche dall'amico era stato addottrinato prima di lasciarmi, simulando che io lo avessi chiamato mi tornò alla sponda del letto rialzando la cortina ad un tratto; onde io sorpreso e vergognoso ad un tempo, forse anche pentito o mal fermo nel mio giovenile proposto, gli dissi che la fasciatura mi s'era disfatta; egli finse di crederlo, e me la rifasciò, né piú mi volle perder di vista un momento. Ed anzi, fatto di nuovo cercar l'amico, egli corse da me, ed ambedue quasi mi sforzarono ad alzarmi da letto, e l'amico mi volle portare a casa sua dove mi vi trattenne per piú giorni, nei quali mai non mi abbandonò. Il mio dolore era cupo e taciturno; o sia che mi vergognassi, o che mi diffidassi, non l'ardiva esternare; onde o taceami, ovvero piangeva.
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Elia
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