Con esso io imparava sempre qualche cosa, e tanta era la di lui bontà e tolleranza, che egli sapea per cosí dire alleggerirmi la vergogna ed il peso della mia ignoranza estrema, la quale tanto piú fastidiosa e stomachevole gli dovea pur comparire, quanto maggiore ed immenso era in esso il sapere. Cosa che, non mi essendo fin allora accaduta con nessuno dei non molti letterati ch'io avessi dovuti trattare, me li avea fatti tutti prendere a noia. E ben dovea essere cosí, non essendo in me niente minore l'orgoglio, che l'ignoranza. Fu in una di quelle dolcissime serate, ch'io provai nel piú intimo della mente e del cuore un impeto veramente febeo, di rapimento entusiastico per l'arte della poesia; il quale pure non fu che un brevissimo lampo, che immediatamente si tornò a spegnere, e dormí poi sotto cenere ancora degli anni ben molti. Il degnissimo e compiacentissimo abate mi stava leggendo quella grandiosa ode del Guidi alla Fortuna, poeta, di cui sino a quel giorno io non avea neppur mai udito il nome. Alcune stanze di quella canzone, e specialmente la bellissima di Pompeo, mi trasportarono a un segno indicibile, talché il buon abate si persuase e mi disse che io era nato per far dei versi, e che avrei potuto, studiando, pervenire a farne degli ottimi. Ma io, passato quel momentaneo furore, trovandomi cosí irrugginite tutte le facoltà della mente, non la credei oramai cosa possibile, e non ci pensai altrimenti.
Intanto l'amicizia e la soave compagnia di quell'uomo unico, che è un Montaigne vivo, mi giovò assaissimo a riassestarmi un poco l'animo; onde, ancorché non mi sentissi del tutto guarito, mi riavvezzai pure a poco a poco a leggicchiare, e riflettere, assai piú che non avessi ciò fatto da circa diciotto mesi.
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Guidi Fortuna Pompeo Montaigne
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