Né alcunissimo nutrimento, o bevanda, per nessuna via mi si poteva far prendere, perché all'avvicinarsi o vaso o istromento qualunque a qualunque orifizio, prima anche di toccare la parte era tale lo scatto cagionato dai subsulti nervosi, che nessuna forza valeva a impedirli; anzi, se mi voleano tener fermo con violenza era assai peggio, ed io ammalato dopo anche quattro giorni di totale digiuno, estenuato di forze, conservava però un tale orgasmo di muscoli, che mi venivano fatti allora degli sforzi che non avrei mai potuti fare essendo in piena salute. In questo modo passai cinque giorni interi in cui non mi vennero inghiottiti forse venti o trenta sorsetti di acqua presi cosí a contrattempo di volo, e spesso immediatamente rigettati. Finalmente nel sesto la convulsione allentò, mediante le cinque o le sei ore il giorno che fui tenuto in un bagno caldissimo di mezz'olio e mezz'acqua. Riapertasi la via dell'esofago, in pochi giorni col bere moltissimo siere fui risanato. La lunghezza del digiuno e gli sforzi del vomito erano stati tali, che nella forcina dello stomaco, fra quei due ossucci che la compongono, vi si formò un tal vuoto, che un uovo di mezzana grandezza vi potea capire; né mai poi mi si ripianò come prima. La rabbia, la vergogna, e il dolore, in cui mi facea sempre vivere quell'indegno amore, mi aveano cagionata quella singolar malattia. Ed io, non vedendo strada per me di uscire di quel sozzo laberinto, sperai, e desiderai di morirne. Nel quinto giorno del male, quando piú si temeva dai medici che non ne ritornerei, mi fu messo intorno un degno cavaliere mio amico, ma assai piú vecchio di me, per indurmi a ciò che il suo viso e i preamboli del suo dire mi fecero indovinare prima ch'egli parlasse; cioè a confessarmi e testare.
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