Con tutti questi mezzi non veniva perciò a capo d'italianizzarmi. Assai male mi piegava agli studi gradati e regolati; ed essendo ogni terzo giorno da capo a ricalcitrare contro gli ammonimenti, io andava pur sempre ritentando di svolazzare coll'ali mie. Perciò, ogni qualunque pensiero mi cadesse nella fantasia, mi provava di porlo in versi; ed ogni genere, ed ogni metro andava tasteggiando, ed in tutti io mi fiaccava le corne e l'orgoglio, ma l'ostinata speranza non mai. Tra l'altre di queste rimerie (che poesie non ardirò di chiamarle) una me ne occorse di fare, da essere da me cantata ad un banchetto di liberi muratori. Era questa, o dovea essere un capitolo allusivo ai diversi utensili e gradi e officiali di quella buffonesca società. E benché io nel primo sonetto quassú trascritto avessi rubato un verso del Petrarca dai suoi capitoli, con tutto ciò, tanta era la mia disattenzione e ignoranza, che allora cominciai questo mio senza piú ricordarmi, e non l'avendo forse mai bene osservata, la regola delle terzine; e cosí me lo proseguii sbagliando, sino alla duodecima terzina; dove essendomene nato il dubbio, aperto Dante conobbi l'errore, e lo corressi in appresso, ma lasciai le dodici terzine com'elle stavano; e cosí le cantai al banchetto: ma quei liberi muratori tanto intendevan di rime e di poesia, quanto dell'arte di fabbricare; e il mio capitolo passò. Per ultima prova e saggio degli infruttuosi miei sforzi, trascriverò ancora qui, o gran parte, o tutto forse quel capitolo; secondo che mi basterà la carta, e la pazienza(10).
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Petrarca Dante
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