Subito mi accinsi a tradurre o ridurre in prosa e frase italiana quel Filippo o quel Polinice, nati in veste spuria. Ma, per quanto mi ci arrovellassi, quelle due tragedie mi rimanevano pur sempre due cose anfibie, ed erano tra il francese e l'italiano senza esser né l'una cosa né l'altra; appunto come dice il Poeta nostro della carta avvampante:
... un color bruno,
che non è nero ancora, e il bianco muore.
In quest'angoscia di dover fare versi italiani di pensieri francesi mi era già travagliato aspramente anche nel rifare la terza Cleopatra; talché alcune scene di essa, ch'io avea stese e poi lette in francese al mio censor tragico e non grammatico, al conte Agostino Tana, e ch'egli avea trovate forti, e bellissime, tra cui quella d'Antonio con Augusto, allorché poi vennero trasmutate ne' miei versacci poco italiani, slombati, facili, e cantanti, essi gli comparvero una cosa men che mediocre; e me lo disse chiaramente; ed io lo credei; e dirò di piú, che lo sentii anche io. Tanto è pur vero che in ogni poesia il vestito fa la metà del corpo, ed in alcune (come nella lirica) l'abito fa il tutto; a segno che alcuni versi
con la lor vanità che par persona
trionfano di parecchi altri in cui
fosser gemme legate in vile anello.
E noterò pure qui, che sí al padre Paciaudi, che al conte Tana, e principalmente a questo secondo, io professerò eternamente una riconoscenza somma per le verità che mi dissero, e per avermi a viva forza fatto rientrare nel buon sentiero delle sane lettere. E tanta era in me la fiducia in questi due soggetti, che il mio destino letterario è stato interamente ad arbitrio loro; ed avrei ad ogni lor minimo cenno buttata al fuoco ogni mia composizione che avessero biasimata, come feci di tante rime, che altra correzione non meritavano.
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