I giambi di Seneca mi convinsero di questa verità, e forse in parte me ne procacciarono i mezzi. Che alcuni tratti maschi e feroci di quell'autore debbono per metà la loro sublime energia al metro poco sonante, e spezzato. Ed in fatti qual è sí sprovvisto di sentimento e d'udito, che non noti l'enorme differenza che passa tra questi due versi? L'uno, di Virgilio, che vuol dilettare e rapire il lettore:
Quadrupedante putrem sonitu quatit ungula campum;
l'altro, di Seneca che vuole stupire e atterrir l'uditore; e caratterizzare in due sole parole due personaggi diversi:
Concede mortem.
Si recusares, darem.
Per questa ragione stessa non dovrà dunque un autor tragico italiano nei punti piú appassionati e fieri porre in bocca de' suoi dialogizzanti personaggi dei versi, che quanto al suono in nulla somiglino a quei peraltro stupendi e grandiosissimi del nostro epico:
Chiama gli abitator dell'ombre eterneil rauco suon della tartarea tromba.
Convinto io nell'intimo cuore della necessità di questa total differenza da serbarsi nei due stili, e tanto piú difficile per noi italiani, quando è giuoco forza crearsela nei limiti dello stesso metro, io dava dunque poco retta ai saccenti di Pisa quanto al fondo dell'arte drammatica, e quanto allo stile da adoprarvisi; gli ascoltava bensí con umiltà e pazienza su la purità toscanesca e grammaticale; ancorché neppure in questo i presenti toscani gran cosa la sfoggino.
Eccomi intanto in meno d'un anno dopo la recita della Cleopatra, possessore in proprio del patrimonietto di tre altre tragedie.
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