Nell'aprile del '77 verseggiai perciò l'Antigone, ch'io, come dissi, avea ideata e stesa ad un tempo, circa un anno prima, essendo in Pisa. La verseggiai tutta in meno di tre settimane; e parendomi aver acquistata facilità, mi tenni di aver fatto gran cosa. Ma appena l'ebbi io letta in una società letteraria, dove quasi ogni sera ci radunavamo, ch'io ravvedutomi (benché lodato dagli altri) con mio sommo dolore mi trovai veramente lontanissimo da quel modo di dire ch'io avea tanto profondamente fitto nell'intelletto, senza pur quasi mai ritrovarmelo poi nella penna. Le lodi di quei colti amici uditori mi persuasero che forse la tragedia quanto agli affetti e condotta ci fosse; ma i miei orecchi e intelletto mi convinsero ch'ella non c'era quanto allo stile. E nessun altri di ciò poteva a una prima lettura esser giudice competente quanto io stesso, perché quella sospensione, commozione, e curiosità che porta con sé una non conosciuta tragedia, fa sí che l'uditore, ancorché di buon gusto dotato, non può e non vuole, né deve, soverchiamente badare alla locuzione. Quindi tutto ciò che non è pessimo, passa inosservato, e non spiace. Ma io che la leggeva conoscendola, fino a un puntino mi dovea avvedere ogni qual volta il pensiero o l'affetto venivano o traditi o menomati dalla non abbastanza o vera, o calda, o breve, o forte, o pomposa espressione.
Persuaso io dunque che non era al punto, e che non ci arrivava, perché in Torino viveva ancor troppo divagato, e non abbastanza solo e con l'arte, subito mi risolvei di tornare in Toscana, dove anche sempre piú mi italianizzereí il concetto.
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