Sbarcato quivi, e tediandomi di aspettare che il vento tornasse favorevole per ritornare a Lerici, lasciai la filucca con la roba mia, e prese alcune camicie, i miei scritti (dai quali non mi separava mai piú) ed un sol uomo, per le poste a cavallo a traverso quei rompicolli di strade del nudo Appennino me ne venni a Sarzana, dove trovai i cavalli, e dovei poi aspettar la filucca piú di otto giorni. Ancorché io ci avessi il divertimento dei cavalli, pure non avendo altri libri che l'Orazietto e il Petrarchino di tasca, mi tediava non poco il soggiorno di Sarzana. Da un prete fratello del mastro di posta mi feci prestare un Tito Livio, autore che (dalle scuole in poi, dove non l'avea né inteso né gustato) non m'era piú capitato alle mani. Ancorché io smoderatamente mi fossi appassionato della brevità sallustiana, pure la sublimità dei soggetti, e la maestà delle concioni di Livio mi colpirono assai. Lettovi il fatto di Virginia, e gl'infiammati discorsi d'Icilio, mi trasportai talmente per essi, che tosto ne ideai la tragedia; e l'avrei stesa d'un fiato, se non fossi stato sturbato dalla continua espettativa di quella maledetta filucca, il di cui arrivo mi avrebbe interrotto la composizione.
E qui per l'intelligenza del lettore mi conviene spiegare queste mie parole di cui mi vo servendo sí spesso, ideare, stendere, e verseggiare. Questi tre respiri con cui ho sempre dato l'essere alle mie tragedie, mi hanno per lo piú procurato il beneficio del tempo, cosí necessario a ben ponderare un componimento di quella importanza; il quale se mai nasce male, difficilmente poi si raddrizza.
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