Esisteva in quel tempo una legge in Piemonte, che dice: "Sarà pur anche proibito a chicchessia di fare stampar libri o altri scritti fuori de' nostri Stati, senza licenza de' revisori, sotto pena di scudi sessanta, od altra maggiore, ed eziandio corporale, se cosí esigesse qualche circostanza per un pubblico esempio". Alla qual legge aggiungendo quest'altra: "I vassalli abitanti de' nostri Stati non potranno assentarsi dai medesimi senza nostra licenza in iscritto". E fra questi due ceppi si vien facilmente a conchiudere, che io non poteva essere ad un tempo vassallo ed autore. Io dunque prescelsi di essere autore. E, nemicissimo com'io era d'ogni sotterfugio ed indugio, presi per disvassallarmi la piú corta e la piú piana via, di fare una interissima donazione in vita d'ogni mio stabile sí infeudato che libero (e questo era piú che i due terzi del tutto) al mio erede naturale, che era la mia sorella Giulia, maritata come dissi col conte di Cumiana. E cosí feci nella piú solenne e irrevocabile maniera, riserbandomi una pensione annua di lire quattordici mila di Piemonte, cioè zecchini fiorentini mille quattrocento, che venivano ad essere poco piú in circa della metà della mia totale entrata d'allora. E contentone io rimanevami di perdere l'altra metà, o di comprare con essa l'indipendenza della mia opinione, e la scelta del mio soggiorno, e la libertà dello scrivere. Ma il dare stabile e intero compimento a codest'affare mi cagionò molte noie e disturbi, attese le molte formalità legali, che trattandosi l'affare da lontano per lettere, consumarono necessariamente assai piú tempo.
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