Mi entrò dunque non poca diffidenza nel cuore; e la fantasia (in me sempre ardentissima) mi fabbricò questo danno che era tra i possibili, come se veramente già mi fosse accaduto. Onde io credei fermamente per piú di quindici giorni che i miei sei mila zecchini fossero iti all'aria insieme con l'ottima opinione ch'io mi era sempre giustamente tenuta di quell'Elia. Ciò posto io mi trovava allora in due circostanze. L'affare con la sorella non era sistemato ancora; e sempre ricevendo nuove cavillazioni dal cognato, che tutte le sue private obbiezioni me le andava sempre facendo in nome e autorità del re; io gli avea finalmente risposto con ira e disprezzo: che se essi non voleano Donato, pigliassero pure Pigliato; perché io a ogni modo non ci tornerei mai, e poco m'importava di essi e dei lor danari e del loro re, che si tenessero il tutto e fosse cosa finita. Ed io era in fatti risolutissimo all'espatriazione perpetua, a costo pur anche del mendicare. Dunque per questa parte trovandomi in dubbio d'ogni cosa, e per quella dei mobili realizzati non mi vedendo sicuro di nulla, io me la passai cosí fantasticando e vedendomi sempre la squallida povertà innanzi agli occhi, finché mi pervennero le cambiali d'Elia, e vistomi possessore di quella piccola somma non dovei piú temere per la sussistenza. In quei deliri di fantasia, l'arte che mi si prepresentava come la piú propria per farmi campare, era quella del domacavalli, in cui sono o mi par d'essere maestro; ed è certamente una delle meno servili.
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Elia Donato Pigliato Elia
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