I libri erano quasi che nulla per me; i versi e le tragedie andavan male, o si stavano; ed in somma io non campava che di posta spedita, e di posta ricevuta, a null'altro potendo rivolger l'animo se non se alla mia donna lontana. E me n'andava sempre solitario cavalcando per quelle amene spiagge di Posilipo e Baia, o verso Capova e Caserta, o altrove, per lo piú piangendo, e sí fattamente annichilato, che col cuore traboccante d'affetti non mi veniva con tutto ciò neppur voglia di tentare di sfogarlo con rime. Passai in tal guisa il rimanente di febbraio, sin al mezzo maggio.
Tuttavia in certi momenti meno gravosi facendomi forza, qualche poco andai lavorando. Terminai di verseggiare l'Ottavia; e riverseggiai piú che mezzo il Polinice, che mi parve di una pasta di verso alquanto migliorata. Avendo finito l'anno innanzi il secondo canto del poemetto, mi volli accingere al terzo; ma non potei procedere oltre la prima stanza, essendo quello un tema troppo lieto per quel mio misero stato d'allora. Sicché lo scrivere lettere, e il rileggere cento volte le lettere ch'io riceveva di lei, furono quasi esclusivamente le mie occupazioni di quei quattro mesi. Gli affari della mia donna si andavano frattanto rischiarando alquanto, e verso il fin di marzo ella avea ottenuto licenza dal papa di uscire di monastero, e di starsene tacitamente come divisa dal marito in un appartamento che il cognato (abitante sempre fuori di Roma) le rilasciava nel di lui palazzo in città. Io avrei voluto tornar a Roma, e sentiva pure benissimo che per allora non si doveva.
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